di Stefania Coco Scalisi
illustrazione di Egle Pellegrini
Uscito dalla stazione dei treni mai si sarebbe immaginato di ritrovarsi in mezzo a quella bufera di neve.
Eppure, i meteorologi l’avevano detto: in arrivo quest’autunno una perturbazione polare di grandi proporzioni, una cosa mai vista, insomma. Non avevano proprio detto così ma l’avevano lasciato intendere.
Tutti l’avevano presa come un altro strano fenomeno di quello stranissimo anno, e sulla preoccupazione per quello che avrebbe potuto comportare per la vita quotidiana, prevalse la curiosità di vedere quanto ancora sarebbero riusciti a sopportare.
Persi tra meme e battute sulla sfiga che si era abbattuta da quel 1° gennaio 2020, nessuno, insomma, aveva davvero capito la portata di quell’evento. Così, complice la temperatura anestetizzante dei vagoni e lo spettacolo desolante delle gallerie, fu davvero una sorpresa inaspettata quella coltre bianca sopra la città. Muta e infreddolita, la gente attorno lui correva qua e là, come impazzita, presa dalla frenesia di raggiungere un riparo.
Lui che di solito percorreva quei 2 chilometri scarsi fino a casa a piedi, si ritrovò pervaso dalla stessa ansia di mettersi al coperto, per cui, invece di imboccare la solita strada, si precipitò verso un autobus che lo avrebbe condotto proprio sotto il suo portone senza dover temere di morire di freddo.
Una volta sul bus, l’aria tiepida dei riscaldamenti mischiata al tepore della gente a bordo, fu la conferma che aveva fatto la scelta giusta.
Si accomodò accanto a un finestrino libero e si mise a contemplare lo spettacolo delle auto incolonnate sotto la neve che continuava a fioccare davanti ai vetri.
Le auto sembravano quasi un presepe, rosse, gialle e luminose.
Ma soprattutto immobili.
Come le statuette dei pastori fermi a contemplare la natività, anche loro restarono fissi ad ammirare quello strano spettacolo della natura. Dopo qualche insistenza, l’autista esperto riuscì a divincolarsi dall’ingorgo e partì.
«Speriamo di farcela ad arrivare a casa in tempo», disse all’improvviso un passeggero seduto proprio dietro di lui.
«In che senso?», chiese voltandosi.
«Beh, non lo sa che oggi è entrato in vigore il coprifuoco? Dalle 22 niente più mobilità, tutti fermi a casa».
«Vabbè ma mica possiamo restare così, in mezzo alla strada. Il bus finirà il suo giro!».
«Ma no guardi che questo è l’ultima corsa del giorno. Anche i mezzi pubblici devono adeguarsi, hanno cambiato tutti gli orari. L’hanno pure detto al telegiornale, sa?»
Perplesso, si girò.
Certo che quel tizio era proprio scemo, credere che tutto il paese si bloccasse come stessimo giocando ad un’enorme partita di un due tre stella. Rassicurato da quel pensiero, tornò a guardare la strada.
L’autobus, seppure lentamente, procedeva.
Non si fermò quasi mai, solo una volta per far salire un ciccione che con fatica si schiantò a sedere, sudando come fosse piena estate.
Mancavano solo due fermate da casa, che di nuovo ci si bloccò.
Un motociclista stava ferocemente litigando con il conducente di una macchina che aveva sfiorato nel tentativo di superarlo. L’autista, infastidito dall’intralcio, iniziò a suonare selvaggiamente per far spostare quei due. Tra le urla dei litiganti e il clacson del bus, passarono i minuti, ma nessuno sembrava voler fare qualcosa.
Senza rendersene conto, gli occhi si posarono sull’enorme orologio a led appeso sopra la testa del conducente: le 21.54.
In teoria se fosse stato vero quello quanto detto dall’altro passeggero, aveva circa 6 minuti per riuscire a rientrare.
Senza capire perché, inizio ad agitarsi.
Prese a fare gestacci ai due per la strada picchiando selvaggiamente sul polso, li dove c’era l’orologio. Quelli, quasi alle mani, sembrarono capire immediatamente, e, come spinti da una forza esterna, salirono sui propri mezzi e filarono via.
La loro fretta gli mise addosso ancora più inquietudine.
L’autobus riprese la corsa: 21.56. Se tutto filava liscio, ce l’avrebbe fatta. Ma perché credeva a quell’assurdità? Continuava a ripeterselo, mentre le lancette scorrevano.
Alle 21.58, l’autobus imboccò il viale dove si trovava il suo appartamento. 21.59: vedeva quasi casa, era a giusto due isolati da li.
22.00: l’autobus si fermò.
«Mi dispiace signori, ma ci fermiamo qui!»
Poco male, pensò, era praticamente arrivato.
Si alzò, prese le sue cose e si diresse verso le porte d’uscita.
«Dove va, mi scusi?».
«Sono arrivato, se apre faccio gli ultimi metri a piedi, grazie».
«No, mi dispiace. C’è il coprifuoco, non posso aprirle».
«Sta scherzando, vero? Mi faccia scendere immediatamente! Altrimenti chiamo la polizia, è sequestro di persona».
«Chiami chi vuole! Io ho disposizioni chiare: alle 22 fermo tutto. Se la faccio scendere, lei viola il coprifuoco e la colpa sarà anche mia».
Si girò di scatto verso gli altri passeggeri: tutti erano d’accordo con l’autista. «Ha ragione lui!» o ancora, «Colpa nostra che abbiamo fatto tardi!», furono le cose che sentì ritornando a sedere.
Gli sembrava tutto così surreale, che non riuscì più a dire nulla.
Vide l’autista prendere una copertina dal cruscotto e reclinare il sedile. La gente attorno a lui iniziava a chiamare casa per avvisare che non sarebbero tornati prima delle 6 del mattino. A un certo punto un passeggero disse:
«Se vi va possiamo metterci a coppie così da scaldarci, giuro che non ho cattive intenzioni!», ma mentre lo diceva guardò l’unica ragazza a bordo che, schifata, distolse subito lo sguardo.
Lui invece guardò il ciccione: era sudato sì, ma con tutto quel grasso lo poteva davvero tenere al caldo. Stava per andare a fargli quella proposta indecente, quando l’autista tuonò:
«Siete pazzi! E il distanziamento sociale? Ritornate subito ai vostri posti, nessuno si tocchi!».
Nessuno lo fece, aveva ragione l’autista.
Tutti tornarono a sedere.
Guardò l’orologio: le 22.07.
Di sicuro a quel punto sarebbe già stato a casa, vicino ai termosifoni caldi, con le pantofole ai piedi.
Con quell’ultima immagine in mente, si voltò di nuovo verso il finestrino.
La neve continuava a cadere, rendendo tutto perfettamente immobile.